Raccogliere le “Conchiglie” di Beca aiuta a stare meglio

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Abbiamo scoperto Beca qualche tempo fa, e subito ce ne siamo innamorati: piglio da pop-star alla Grignani, look del Casanova e penna da poeta maledetto, il talento viareggino rappresenta un buon mix fra canzone leggera e canzone d’autore, crocevia di influenze e linguaggi che trovano espressione nella raccolta riuscita di “Conchiglie”, album d’esordio del cantautore e primo manifesto di una sensibilità in maturazione e in cerca di nuovi canali espressivi.

I singoli estratti (“Aurora”, “Caffè” e “Shelley”) sembravano già rivelare qualcosa sulla natura composita e libera di un disco che mette insieme fotografie color seppia e riflessioni sul futuro, canzoni d’amore con brani che appaiono come dei veri e propri mantra propiziatori, o scacciapensieri necessari a non sprofondare nel grande oceano delle preoccupazioni quotidiane.

Un lessico semplice, che riesce tuttavia ad evocare immagini riuscite che sembrano attingere dalla dimensione del ricordo e allo stesso tempo provano a guardare verso il futuro, con uno slancio generazionale e allo tesso tempo intimo che rappresenta la cifra stilistica di una penna da tenere d’occhio; l’impalcatura musicale, poi, sembra essere un vestito di sartoria che calza benissimo le canzoni di “Conchiglie”: la mano di Nicola Baronti riesce a rendere con efficacia la delicatezza agguerrita di un disco che ha il coraggio del pettirosso, e che quando accarezza colpisce.

Una buona prova d’autore per Beca, che riesce a parlare d’amore ma con una prospettiva dal retrogusto esistenzialista che riesce a far cantare i dubbi, e a rendere più morbide domande che alla fine perseguitano tutti noi.