L’Egomostro di Colapesce

1937

Recensione di Stefano Gambirasi

Tre anni tra palco e mondo, tanto è servito a Colapesce (all’anagrafe di Solarino: Lorenzo Urciullo) per elaborare, produrre e proporci il risultato delle sue riflessioni sull’Io all’interno del nostro contesto sociale.
Dallo zaino che s’è portato durante il viaggio dentro se stesso, Colapesce estrae 14 brani (12, più benvenuto e congedo) capaci di trasportare l’ascoltatore in una dimensione onirica. Il contenuto di Egomostro è uno spaccato della società in cui viviamo, un racconto sulla fatuità dei rapporti (liquidi, per definirli a la Baumann) ma anche sulla superficialità in generale (“Un’esperta di filosofia/poi ti eviti quando si tratta di esistere”, dalla seconda traccia dell’ellepì, Dopo il diluvio). Il tutto filtrato attraverso l’esperienza personale di Lorenzo, al secondo album con la 42records, dopo Un meraviglioso declino.
Egomostro è, per dirla british, un concept album: il protagonista è Colapesce, ma potrei essere Io, mentre scrivo queste righe, o Tu, mentre le leggi: l’egomostro è, in questo senso, l’individuo nella sua connessione con il mondo. Unitari sono infatti i testi, così come la musica: Lorenzo e i 10 musicisti che l’hanno accompagnato (tra cui Fabio Rondanini, batterista con gli Afterhours, e Marco “Benz” Gentile, agli archi con Capossela) hanno farcito i brani di strumenti e melodie in sovrapposizione; ed il risultato è splendido: angosciante ed emozionante come la vita. Gli strumenti vanno dalla viola al flauto a naso, dal marxophone alla sega musicale (da pelle d’oca in Sotto coperta), con sintetizzatori, chitarre e percussioni sempre presenti a scandire i ritmi dei brani.
Lorenzo sperimenta molto e riesce a creare qualcosa di davvero originale, capace di distinguersi dal resto del panorama “indie” italiano (per gli amanti dei paragoni “facili” lo si potrebbe accostare al corregionale Battiato, non tanto per le sonorità, quanto per la volontà di spingersi al limite, alla ricerca di un sound complesso e ricercato, all’interno di un contesto, sì vario, ma spesso ripetitivo). I testi sono critici e, soprattutto, autocritici (“non serve l’ipnosi regressiva/non serve un mago è solo la vita”, dalla seconda traccia, Reale): ci parlano dell’ansia di vivere, di mostrarsi (o meglio, mettersi in mostra – “specialista in autoscatti/non c’è scampo per il cibo/è già condiviso/ancor prima di mangiare” – dalla title track), della percepita necessità d’essere il risultato delle aspettative degli altri, piuttosto che le semplici proiezioni reali di noi stessi. E l’utilizzo che Colapesce fa della sua voce è decisamente appropriato, la tensione retorica è magistralmente trasmessa dalla vocalità, con un sacco di seconde voci (tutte dello stesso Colapesce, a parte in Maledetti italiani) ad accompagnare la narrante.
Si tratta, in definitiva, di un lavoro da pollice in su, ricercato e godibile allo stesso tempo (ma non potevamo aspettarci altrimenti da un nome del genere). Consigliatissimo un ascolto attento, anche a chi non apprezzasse il genere.