
-Ciao Toni, dal momento che è la prima volta che ti intervistiamo vogliamo cominciare dal principio. Come mai hai scelto Arau come tuo nome d’arte?
Sono contento di incontrare finalmente voi amici e lettori di RadioTweet Italia.
Il nome d’arte è sempre stato un punto di partenza importante quando si decide di voler creare un progetto musicale perché racchiude spesso un mondo personale dell’artista e può racchiudere anche un messaggio molto importante. Per quanto mi riguarda, ho ricercato un nome che mi permettesse di mantenere un legame con la mia terra di origine, la Sardegna. Infatti “Arau” è una parola in lingua sarda, che tradotta, indica l’atto della coltivazione della terra.
Il lavoro della terra implica umiltà, dedizione, cura, sincerità, tutti concetti che descrivono me e la mia musica.
-Prima di questo bel progetto che stai portando avanti dall’autunno scorso, hai pubblicato un album di inediti intitolato “La lunga eclisse”. In che modo cambia per te il modo di rapportarti con pezzi scritti da te e pezzi scritti da altri autori?
“La lunga eclisse” è stato il secondo album di inediti che ho prodotto, dopo l’uscita di un disco quasi introvabile che avevo intitolato “Rabdoamanti”, una sorta di cercatori di sentimenti esoterici. Un disco sperimentale che mi ha fatto capire le cose che dovevano essere messe in ordine per dar forma al vero progetto Arau.
Per quanto riguarda il rapporto tra scrittura per sé o per/da altri, ad esempio mi è capitato di fare arrangiamenti di brani per altri autori, ma mai nessuno ha scritto per me fino ad oggi.
La differenza comunque per quanto mi riguarda sta nella sensibilità che ci metti dentro: scrivere per se stessi implica vita personale vissuta trasposta in note, scrivere per altri invece, richiede spesso meccanica, solo scrittura di note e accordi, e per uno come me, che ama rischiare e mettersi in gioco spesso diventa una cosa costrittiva e noiosa. Al contrario, rileggere in maniera personale brani di altri autori (come ho fatto con “Un’altra musica” e “L’anno che verrà”) implica una scelta, una selezione personale e anche un lavoro di riarrangiamento, quindi si avvicina molto di più alla scrittura di pezzi propri.

-Veniamo infatti al progetto più recente: “Un’altra musica”. Da cosa è nata l’idea di dar spazio ad altri cantautori, riletti con il tuo personalissimo stile?
Io non amo la banalità nella musica, così come nella vita, cerco sempre di tirar fuori idee che mi permettano di staccarmi dal gruppo, voglio arrivare prima con la personalità, perché la qualità artistica della tua musica nasce prima da questo. Così per uscire un po’ dalla centrifuga dei tanti videoclip pubblicati ogni giorno e ogni ora, ho pensato di produrne uno che potesse permettermi di non rimanere travolto da un appiattimento mediatico indotto dal sistema di oggi.
Fondere il mondo dell’arte e del cinema è stato molto stimolante e affascinate, una bomba di sinergie creative. Poi con un pizzico di coraggio mi sono messo in gioco creando un arrangiamento che mi permettesse di tirar fuori un mio marchio di fabbrica, la chitarra slide, che è da sempre mia fedele compagna di avventure.
I grandi cantautori di oggi hanno attraversato 50 anni di generazioni, le cover dei loro brani più famosi saccheggiati oramai da tanti. Anche qui credo che chi ascolta sia più stimolato ad ascoltare un brano reinterpretato personalmente più che coverizzato e suonato ricalcando le note dell’originale.
Credo che oggi ci sia bisogno di non perdere di vista i cantautori storici, non solo perché loro hanno dettato e dettano ancora la cultura musicale di questo paese, ma perché alle nuove generazione serve innovazione, e gli stimoli per trovarla non possono che derivare da chi già è stato in grado di rivoluzionare qualcosa a suo tempo: sono i grandi maestri che non ci dicono di fare come loro ma trovare se stessi come hanno fatto loro. Questo è un po’ quello che ho cercato di fare io, nel mio piccolo.
I richiami alla storia sì, sono importanti, ma non bisogna essere troppo innamorati del passato per non rischiare di incorrere ancora una volta nella banalità.
-Il primo cantautore che stai omaggiando attraverso questo progetto è Lucio Dalla. Cosa ha rappresentato per te la musica di questo straordinario artista scomparso troppo presto?
Come tanti, anch’io ho vissuto la musica di Lucio Dalla, molto stimolante e ricca di estro artistico.
Lui ha sempre rischiato e ha sempre messo in primo piano la sua personalità, in altre parole non ha mai fatto compromessi con il business, dando forma alla sua arte, rendendola ben riconoscibile al pubblico. Ho visto Dalla come qualcuno che inseguiva l’unicità a tutti i costi per esistere, non l’unanimità a tutti i costi pur di esistere.
-Come mai hai scelto proprio il brano “L’anno che verrà”?
“L’anno che verrà” è un brano straordinario, unico, irripetibile. Ma è anche un brano molto malinconico, vicino al mio modo d’essere. Una visione del tempo che passa e della vita racchiusa in pochi versi. Volevo partire col meglio e questo era uno dei brani simbolo scritti da Dalla.
Poi il caso ha voluto che provando a ricercare la melodia sulla chitarra slide, mi venisse fuori quasi magicamente un groove che potesse essere cucito addosso ad Arau.

-Ne hai parlato più volte e infatti stavo proprio per chiederti qualcosa a riguardo, perché una particolarità della tua musica è proprio l’utilizzo della chitarra slide weissenborn da ginocchia: quando hai cominciato ad utilizzarla e in cosa la preferisci alla chitarra standard?
La chitarra slide è un amore incredibile nato nei primi anni ‘90. Ricordo ancora quel giorno in cui rimasi impressionato dal video di “Ground On Down” di Ben Harper. Lui era arrivato nella mia vita in maniera assolutamente stupefacente, come se tu ti trovassi ad aprire la porta di casa e ti si presentassi di fronte un vero alieno e ti dicesse: ”Hey scusa, hai mica da accendere?”.
Lo slide da ginocchia è qualcosa di assolutamente incredibile, ha una forza e un impatto scenico superiore a qualsiasi performance comune. Necessita di predisposizione, sensibilità particolare nello scivolare tra le note. Conosco tanti musicisti che con la chitarra elettrica compongono scale difficilissime e sono tecnicamente eccelsi, ma con lo slide da ginocchia cambiano un po’ le regole, ci vuole una certa attitudine.
Qui io mi sento a mio agio e comodo, non so perché, è un feeling naturale.
-Nella tua carriera ti sei dedicato anche all’arte di strada. Qual è stata l’esperienza più emozionante che hai provato suonando nelle strade e nelle piazze del mondo e quale invece la più spiacevole?
La strada è la mia casa, sotto moti punti di vista. Quando partii dalla Sardegna per giungere nel “continente”, e approdai nella città di Bologna, portai con me solo pochi soldi, due banconote, un letto a scadenza e la mia sola certezza: la chitarra.
La strada mi sembrò l’unica via per gestire e supportare quella nuova avventura di vita.
Non c’è emozione più grande, al di là del posto dove ti trovi, se non quella di sentire tutte le volte le monete cadere dentro la custodia della tua chitarra, significa che qualcosa la stai trasmettendo.
L’Italia è il paese dei festival da strada: da ragazzo ne ho fatti tanti, ma io rimango sempre legato al “Ferrara Busker Festival” che ha un’atmosfera unica e coinvolgente. Lì è sempre un continuo happening, non sai mai cosa può accadere. Ad esempio, ricordo che durante un’esibizione in strada, una volta mi capitò che un ragazzo mi si avvicinò e mi chiese se poteva ballare il freestyle sulla base di un mio brano, ne venne fuori qualcosa di veramente unico e spettacolare! Non lo vidi mai più, ma mi piace ricordarlo come un grande ballerino.
La strada rappresenta l’essenza della vita stessa, ed è bello perché tutti siamo sullo stesso piano, non ci sono musicisti che salgono in cattedra come quando ci sono i palchi!
Di cose spiacevoli non ho per fortuna dei ricordi. La strada è sempre stata materna e generosa con me.
-Secondo te com’è vista l’arte di strada dai nostri connazionali e cosa si dovrebbe fare per aumentare le possibilità e gli spazi che permettono agli artisti di esibirsi liberamente nelle strade delle nostre città?
L’arte di strada o meglio “le” arti di strada hanno un grandissimo pregio e cioè quello di far assistere allo spettacolo adulti e bambini, nel medesimo apporto emozionale di stupore o interesse.
Il nostro è un paese tradizionalmente molto appassionato alle arti di strada, ma purtroppo la burocrazia non sembra dello stesso avviso da anni e gli artisti si confrontano quotidianamente con le istituzioni locali.
Sono convinto che gli artisti di strada debbano vedersi riconoscere dalle amministrazioni la possibilità, o meglio, il diritto di esibirsi liberamente sul suolo pubblico, senza dover passare attraverso la mediazione di terzi. Spesso se un artista si esibisce in piazza rischia multe e sequestro di strumentazione da parte delle forze dell’ordine e questo non è giusto per una nazione che ha una storia dell’arte più rigogliosa rispetto a molte altre del resto del mondo. Credo che l’esibizione a “cappello” di un musicista, giocoliere o altro, debba essere accettata come prima espressione di libertà e creatività artistica. Un paese che crede nella democrazia non può non esser democratico proprio su questo argomento, soprattutto se questo paese è l’Italia.

-Tornando a “Un’altra musica”, il progetto si è inaugurato con il cortometraggio omonimo. Vuoi spiegarci com’è nato e qual è la storia che racconta?
Il progetto che avevo in mente, aveva come scopo di fondere e creare una sorta di cortocircuito tra finzione e realtà. Mi spiego meglio: la storia parla di un musicista non troppo fortunato, con serate non retribuite e il sogno di riuscire in questa sua attitudine di cantautore. Cose comuni tra i musicisti, lo sappiamo. Ma se il musicista è Arau, che esiste nella realtà, e che nel cortometraggio recita un copione, ma che allo stesso tempo può non essere un copione, questo è ciò che intendo per cortocircuito.
Il cortocircuito per me non è altro che quella cosa che tutti cerchiamo e chiamiamo “sogno”, ovvero il pensiero che instilla in noi il dubbio su cosa sia la realtà e dove comincia la finzione.
No so se sono riuscito a trasmettere al pubblico questa mia idea, ci spero, ma se non fosse così tenterò con il secondo episodio.
-Generalmente non è facile far interessare la gente, gli ascoltatori delle radio e i lettori delle riviste, ad un progetto di musica “non-inedita”, benché invece da un punto di vista di musica dal vivo le cover band e le tribute band sono solitamente preferite agli artisti che suonano pezzi propri. Cosa ne pensi di questo controsenso?
Io penso alla musica e penso a una persona abituata alla lettura. Se tu nella tua vita hai letto solo un libro probabilmente rimarrai affezionato soltanto a quello. Ma se tu hai l’abitudine alla lettura sarai stimolato alla ricerca e al gusto delle emozioni. La canzone inedita è un po’ questo: gusto nella ricerca delle emozioni, la scoperta di nuovi viaggi. Bisogna diventare esploratori per assaporare il confronto fra le esperienze vissute.
I rivoluzionari anni sessanta sono stati anni in cui gli italiani si sono sentiti esploratori, i cantautori hanno segnato il paese con i loro inediti, dopodiché siamo diventati progressivamente più pigri.

-Per chiudere raccontaci quale sarà il prossimo passo di Arau in questo ambizioso progetto: vuoi già dirci che brano rileggerai?
Attualmente sono al lavoro con un nuovo inedito, ci sarà anche un video legato a questo e sto scrivendo la sceneggiatura per la sua realizzazione. È un inedito molto importante per me, perché mi permetterà di esprimere ancora una volta tutto il mio romanticismo. Contemporaneamente sono anche alle prese con la lavorazione del continuo di “Un’altra musica”: ci sarà ancora la mia slide guitar in primo piano, ci sarà un altro tassello che aggiungerà chiarezza sulla storia di Arau e ci sarà un altro grande cantautore.
Vi svelo che toccherà al grandissimo Fabrizio de Andrè. Incrocio le dita!
-Le incrociamo anche noi per te. Grazie per la chiacchierata e alla prossima.
Grazie a voi tutti.
ARIS SENESE
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