Beh certamente ad ascoltare i primi vagiti di questo disco – ovverosia “Benzene” oppure “Autunno” – sembra quasi che nulla cambi dentro la vena di caposselliana maniera del grande Ginez e il suo Bulbo della Ventola. Ma se prima erano in 4 a “ballare l’alligalli” ora sono molti di più e il disco par mostrare forza di correre lontano e altrove non solo dentro un ascolto attento di sfumature per palati fini, ma anche dentro monolitiche soluzioni tutt’altro che trasparenti. Un hammond, archi, pianoforti, fisarmoniche, cori, distorsioni rock e quadrature pop.
Il modo cubano dentro “L’ombra dell’amore” ad esempio: ed io che amo la casualità del suono impazzisco quando il brano polverizza il rolling lasciando spazio ad un rullante poggiato “a caso” e con fare stanco su spazi larghissimi e lenti che rompono di netto l’atmosfera primigenia per crearne un’altra, a guisa di special del brano. Ed il fumo noir della tromba in sordina di Mr. Raffaele Kohler danno colore ad un brano dentro cui la voce di Ginez è davvero altra cosa rispetto alla masticata narrazione del menestrello di Calitri. Ed è certo che qui apprezzo anche velatissimi vibrati (o glissati che dir si voglia) a rendere ondulata la tessitura vocale… e qui dico che non mi piace la rottura, non mi piace il modo con cui il tempo cambia, il modo con cui viene portato a spalla dalla ritmica di chitarra (a mio parere assai basica). E poi la “Chevrolet” di un personaggio come Ciccioballa (se l’ho ben scritto): mi piace assai quel tono folk di cantastorie che Ginez sa bene come rendere fascinoso e che qui assume colori diversi ma pur sempre ricchi di forza cinematica… mi piace assai l’aria messicana e il caldo che arriva con totale coerenza da tutti gli ingredienti…
“Lettera” è il brano del disco, istintivo come ho sentito dirgli nella sua recente intervista a Trans Europe Express di Paolo Tocco, un brano di pancia rimasto di pancia… un brano di vita che non serve aggiungere altro. E poi? Di questo disco segno timidi post-it su “Memorie di un poeta” e “E qui”, momenti decisamente distanti dalle abitudini di Ginez e totalmente imprevedibili per quello che era la mia piccola impressione che avevo di lui… forse per questo meno digeribili al primo ascolto, un po’ sghembi per dirla in modo aulico.
Ma c’è una cosa che mai mi andrà a genio e che purtroppo troppo spesso si trova: quando un artista porta con se (per sua natura o per suo vezzo) una somiglianza così importante con un nome esteticamente e mediaticamente ingombrante, allora penso sia un dovere morale e artistico cercare strade di maggiore personalità e unicità, dove la distanza sia marcata e percepibile ad occhi chiusi. Ginez ha l’ombra di Capossela sulle spalle. Ha ragione quando dice di essersene stancato: ma allora, risponderei io, perché non fare musica totalmente diversa, soprattutto cantata in modo totalmente diverso? Capisco che stanchi ma non capisco perché non prenderne distanze sfacciate. Ci sono tratti di questo disco che difficilmente scolleremmo dalla produzione di Vinicio… e questo è un grandissimo peccato, visto che parliamo di un artista che ha tantissimo di suo e potrebbe (o dovrebbe come penso io) osare di più nel renderlo unico. Ma questo è soltanto il mio piccolo pensiero… resta “Sambuca Sunrise” e questo bel modo di pensare all’amore e alla società nuova che davvero piace a pochi.
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