Doro Gjat, Mondonuovo (La Grande Onda SRL, 2022)
«Perché la sofferenza sta nel solco di una ruga / per aggiustare l’anima non basterà una brugola / domande ne ho fin troppe, non ne sceglierò mai una (…)»: così in Naufrago del cielo, brano di Mondonuovo che s’impone per connubio felice di testo e di musica (avvincente ne è anche la traduzione in videoclip, per l’essenziale regia di Aurora Ovan). In tale chiaroscuro insidioso e martellante, è bene espresso il sentimento dominante della recente raccolta.
Inesausta l’energia che Doro irradia. Cristallina e senza incrinature la sua espressività: pregi che si riscontrano nel CD, e che si dispiegano più compiutamente dal vivo, quale espressione conseguente e naturale di una fisicità scabra come quella di una falesia (secondo l’azzeccata similitudine di Valentina Silvestrini). Il pubblico fedele ne è avvinto, eppure il tono generale non è punto allegro, e se il riso c’è, né mancano beffe, sfottò e auto-irrisioni, prevale un’attitudine pensosa, a tratti senza conforto, atteggiata spesso a denuncia indignata. Il valore artistico è assicurato da un’originalità che non va alla questua di consenso agile. Perché il mondo nuovo è ritratto senza indulgenze. Non un mondo migliore, anzi, e fin da principio ne siamo avvisati. Tutti (più o meno) «miopi senza gli occhiali», capaci di perderci nell’illusorietà di un esteriore ornamento, di un decoro formale, ma ignari della sostanziale verità (Cornici), ci aggiriamo inconsapevoli «a due passi da un precipizio», impossibilitati a osservare e a comprendere una condizione forse senza uscita: «neanche l’inferno ci vuole / avessi un dio lotterei nel suo nome / ma ho solo ghiaccio e liquore, / brindiamo a noi / a sto buco nero pieno d’incertezze / io che ci annego senza salvagente» (Canna fumaria).
È la terra precipitosamente arroventata ad averci distorto e incupito l’anima? Oppure una nostra precipitosa involuzione che si rifletta ed espande nel planetario disastro? Con triste ma efficace ironia Fuori stagione è intitolato il brano a commemorare la distruzione degli equilibri naturali («il fiume si fa secco / il mare un po’ più alto / il vento sa di amianto»), ma a stigmatizzare anche la coincidente nostra metamorfosi: «non cambia solo il clima / con lui anche le persone».
Quale via di fuga? Forse quella di chi, girovago perenne e ostinato, risolve la propria irrequietudine attraversando paesi lontani e diversi: «oggi riparto di nuovo / un cerchio alla testa, l’ansia allo stomaco / seguo la linea del tropico / cielo di Spagna / corri cavallo fino a Samarcanda / mare di ghiaccio / mare d’Islanda / prati di sola lavanda» (Girovago: con un rintocco del classico testo di Vecchioni). O forse, meglio ancora, quella di chi riscopre in una quotidianità sostanziata d’amore la dimensione esistenziale più compiuta: «e stiamo rinchiusi stasera ti prego / perché non ho voglia di uscire / guardiamo una serie / ma un po’ della serie / si sa dove andiamo a finire / lucciola lucciola fammi da luce / stordiscimi col tuo frinire / nel tuo respiro ci sento l’estate / come nel vento d’aprile» (Stonata).
Non fa difetto la colloquialità diretta, tinta di trivialità scurrile, debito necessario nei confronti dello slang che connota e distingue il genere. Solo per eccezione, invece, una dicitura in marilenghe («cjargnel, tu fradi crodimi»), a rievocare un contesto d’origine, riaffermato peraltro nell’autoironica proclamazione: «sono il Mauro Corona del rap» (Montanaro chic).
Ma più interessa il palesarsi di una espressività ricercata, capace di suadenti immagini liriche: «ci sciogliamo stesi all’ombra degli smartphone» (Fuori stagione); «figlia di casari cresciuta lungo i crinali / ha attraversato i mari un po’ come le dorsali» (In fuga).
Così anche il rap – quando ripensato e reinterpretato da un artista autentico – sa diventare poesia.
Recensione a cura di “Matteo Venier”