L’incipit di pianoforte e orchestrazioni che aprono il disco in “Senza me” certo potevano far presagire una gloriosa immersione nel pop anni ’90 e questo continuo ricercare l’appoggio su scale minori non lascia spazio a dubbi: la tristezza impera come filo conduttore di tutta la narrazione. Eppure arriva la cassa più dub che hip-hop e poi arriva questa voce che nell’inciso ricerca anche una famigliarità con la Napoli dei neomelodici.
Daniele De Luca pubblica “Maledetto amore”, disco d’esordio che firma col moniker di Danny e le sorprese mancano, mancano scossoni, mancano (nel complesso) ricerche personali o soluzioni che possano fare la differenza. Certamente il nostro dimostra di saperci fare ma penso sempre sia facile saper calpestare il calpestato. Dico questo perché la seconda traccia di questo inno ai tormenti del cuore – “Cenere e catrame” – è un brano alto e di punta per me, un brano che dimostra quanto altro ancora avrebbe saputo darci Danny. Questa intro sospesa di polverosi pomeriggi di quartieri desolati, quasi a rivendicare una paternità di sitar o cose esotiche del genere. E poi la ritmica, una cassa esageratamente fuori dal mix ma che incredibilmente non stona ne distrae anzi cementa. E poi il suo sviluppo che chiede in levare finalmente a suoni percussivi molto meno scontati (cosa che poi nel resto del disco torneranno ad essere purtroppo). E infine l’inciso che trascina e fa il suo dovere dentro supporti rinforzati di voci corali. Vince la scrittura anche quando la prima parte di inciso si chiude cercando una melodia vocale “alta” inneggiando appunto ad esotiche e caldissime fotografie latine. E non è un caso che Gigi D’Alessio tornerebbe utile all’orecchio per tantissimi punti di vista. E se questo brano fosse cantato da lui?
A seguire quel dialogo strumentale che apre “Da che parte sei” ha carattere e forza da dimostrarsi necessario per il resto della scrittura. L’inciso di “Fuori di me” dimostra quando Danny sia capace di rapire con semplicità. Abbandoniamo il rap, l’hip hop. abbandoniamo la periferia per andare dentro il centro città, dentro una serata di Venerdì in pizzeria, amici, dopo scuola, adolescenza e amori. Il clap e la scrittura sono da pop radiofonico in “Perfetti sconosciuti” (non a caso è il singolo), ma poco dopo tutta la forza di questo colore un poco si perde nel pensare che l’inciso ha chiesto al suono una spinta che non si troverà. Non bastano i cori a mio modo di vedere. Tutto bello ma…
Il disco si chiude con due brani – “La più bella” e “Piangerò” – che hanno davvero poco da darmi: la percussione (come anticipato) tornano nel recinto dell’omologazione più totale con questi sonaglini metallici usati praticamente da tutto il mondo discografico. E poi la sfera cupa del rap metropolitano qui trova il più classico degli habitat, impersonale, privo di unicità. Dico queste cose perché Danny ha le carte per essere diverso, lo ha dimostrato e per gran parte del disco, a spizzichi e bocconi, ha palesato strumenti di scrittura che, per quanto ancora ingenui, certamente sono unici e ricchi di personalità. Un disco pieno di canzoni come “Cenere e catrame” ora sarebbe ben altrove. Facile e da condannare la leggerezza di usare soluzioni comuni come fatto per “La più bella”. Un dovere di ogni artista fare un disco personale per quanto bello o brutto che sia. Questo il mio pensiero. E ripeto: ho davvero la sensazione che Danny sia in grado di farlo. A lavoro…
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